Messi uno vicino all'altro, i titoli di Peter Hopkirk hanno qualcosa di inquietante. Il suo libro più noto, «Il Grande Gioco», raccontava come le regioni dell'Asia centrale siano da due secoli la zona strategicamente più calda del pianeta e lo faceva mentre gli occhi di tutti rimanevano voltati altrove. Quando invece, nel 1982, uscì «Alla conquista di Lhasa», molti trovarono a dir poco entusiasmante la rievocazione della corsa, tra la fine dell'Ottocento e i primi decenni del Novecento, per la conquista di quello che ancora era, nell'immaginazione popolare, il Paradiso Perduto: il Tibet. In effetti le imprese di personaggi come Annie Royle Taylor che nel 1892 abbandonò l'East End per i sentieri himalayani, arrivando, con la sua carovana, a un passo da Lhasa o Maurice Wilson fermato dalle autorità inglesi in India mentre stava per realizzare l'ultima fase del suo piano, cioè schiantarsi con un biplano Gipsy Moth alle falde dell'Everest per poi proseguire fino alla vetta e innalzarvi la bandiera britannica restano nella memoria. Ma c'è di più: nel racconto di Hopkirk sembra aleggiare la credenza antichissima secondo la quale chi conquista il Tibet conquista, semplicemente, il mondo e si ha così la strana sensazione che le ossessioni e le avventure di singoli così come le mire di immani Stati (la Cina di oggi, ad esempio) verso quei luoghi abbiano un'origine potente e arcana.