Se è vero, come osservava Karl Marx radiografando la civiltà industriale, che il lavoro è il metabolismo dell'uomo con la natura, oggi potremmo dire che il lavoro è il metabolismo dell'uomo con le informazioni. Il mondo si è digitalizzato e, come avevano previsto nei primi anni '80 alcune tra le più brillanti menti del XX secolo riunite al MIT di Boston in occasione dell'inaugurazione di una nuova disciplina, la "Fisica della coùmputazione", tutto sembra essere diventato bit. Che non siano questioni appannaggio di scienziati o filosofi ma, piuttosto, che queste siano cose che ci riguardano tutti da vicino, lo abbiamo capito sin troppo bene in questi mesi. Lo abbiamo vissuto sulla nostra pelle durante il lockdown, quando a scuole e uffici chiusi solo chi ha avuto il privilegio di vivere nell'infosfera ha potuto continuare a seguire corsi, sostenere esami, confrontarsi con colleghi e clienti e vendere prodotti. Per un tessuto imprenditoriale come quello italiano, storicamente frammentato, intrinsecamente resistente al cambiamento e sistematicamente depauperato di risorse e idee, il colpo è stato violento. Eppure, non mancano segnali che inducono a pensare che la pandemia potrebbe diventare un catalizzatore di processi di innovazione. Dipende da noi. Dipende da noi come cittadini prima ancora che imprenditori, professionisti e intellettuali. Che l'innovazione digitale sia distribuita in maniera capillare è infatti una questione di civiltà prima ancora che di opportunità di sviluppo. Il testo si propone di condurre il lettore in questo viaggio che sta trasformando il nostro modo di lavorare, fare business, studiare, innovare, in una interazione sempre più inestricabile tra agenti cognitivi naturali e artificiali.