Per chi si è già imbattuto ne Le venti giornate di Torino e per chi deve ancora scoprirlo, ecco un'indagine, personalissima e ricca di spunti, su casi, enigmi, combinazioni e coincidenze che stanno dietro a quello che forse è l'unico vero, autentico romanzo maledetto italiano.
Un'indagine che non può prescindere dall'autore del libro, Giorgio De Maria, apparentemente destinato all'oblio dopo la morte per pazzia e consunzione. Una vita, la sua, fatta di genio e sregolatezza, di anni di concerti per piano interrotti da una bizzarra malattia alle mani, di impieghi dirigenziali prima alla FIAT e poi alla RAI, di amicizie importanti (Umberto Eco, Italo Calvino, Elémire Zolla), di critica teatrale, di scrittura a ritmi serrati, d'insegnamento in istituti di periferia, di anticlericalismo spinto all'eccesso e poi rimpiazzato dal fanatismo religioso, di stati psicotici alimentati dall'alcol e dal ricorso smodato all'Halcion.
Un'indagine che non può non vertere su Torino, non tanto l'abusata capitale italiana della magia ma la città dell'Automobile con la A maiuscola (almeno un tempo), degli anni di piombo, della spiazzante austerità sabauda e del taciuto e del sottinteso, del soffocante cielo bianco gesso, dei larghi viali alberati dalla geometria ingannevolmente rigorosa, teatro del definitivo smarrimento della ragione di un filosofo come Friedrich Nietzsche e degli incubi dello stesso De Maria. Incubi che, ne Le venti giornate, anticipano in modo inquietante, per l'assoluta precisione, la realtà di Internet, dei social network e di tutta un'epoca a venire.