Istintivamente Pompeo gridò verso di essi la parola che aveva letto sulle loro labbra: «Amedan. A-me-dan», così forte che tutta la valle ne fu scossa come da un terremoto.
Lo prese come una vertigine, gli pareva di vedere tutto attraverso a delle lenti spesse e la terra gli si muoveva sotto i piedi. Ma non fu che un istante; tornò subito a veder chiaro come prima.
I tibetani erano spariti come poco prima il suo padrone, e non gli restavano davanti che innumerevoli pan di zucchero color violetto.
Il loro capo viveva ancora. Le sue gambe erano già quasi cambiate in una poltiglia azzurra e anche la parte superiore del corpo cominciava a raggrinciarsi, pareva quasi che tutto l'individuo venisse assorbito da un essere invisibile. Egli non aveva il berretto rosso degli altri ma uno strano edificio simile a una mitra sotto la quale si muovevano gli occhi gialli.
Jaburek gli fracassò il cranio col calcio del fucile ma non potè impedire che il morente lo ferisse a un piede con una roncola tirata fuori all'ultimo momento.
Il profumo dei fiori di amberia si era fatto così forte da essere quasi pungente: pareva che uscisse dai coni violetti che Pompeo ora guardava. Essi erano tutti uguali e formati dallo stesso muco gelatinoso di color violetto chiaro. Ritrovare i resti di sir Roger tra questi coni violetti era impossibile.