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"Dario ha le orecchie a sventola e quindi non può avere ucciso Gesù". E la voce esilarante e appassionata di Pietro, un bambino di dieci anni, orfano, che racconta la storia. Tutto comincia nel convento di San Francesco del Deserto, una piccola isola al centro della laguna di Venezia, nel marzo del 1945. Da questo rifugio sicuro, all'improvviso, un gruppo di persone diversissime fra loro è costretto a scappare: due bambini di opposta indole ed educazione, Pietro e il suo amico Dario, "che sa i numeri" e si tiene le parole dentro, "dove non fanno danno"; le due anziane sorelle Jesi, Maurizia e Ada; una giovane suora, bella e dai modi sospetti, che scrive un diario schietto, e che si alterna nel racconto con la voce di Pietro. Braccato dai nazisti, il gruppo è aiutato da un pescatore "che vive come un gabbiano" e da un frate energico "che è come un sasso grande" nella corrente. Nei risvolti tragici dell'avventura si unisce ai fuggiaschi un disertore tedesco, che custodisce un segreto pericoloso: il suo agire brusco e terribile cambierà il destino di tutti. Sotto lune immense, attraverso boschi bui e casolari diroccati, si svolge l'inseguimento, tra colpi di scena e incontri con partigiani e fascisti disorientati: uomini e luoghi carichi di diffidenza e di terrore, ma dove una traccia di bontà, di tanto in tanto, a dispetto di tutto, riesce a sopravvivere. La storia di Pietro e di Dario è una fuga dalla guerra e dal suo linguaggio torbido e ottuso, dalla violenza che tutto contamina.
La nostra recensione
Anche il secondo romanzo di Andrea Molesini - non contiamo i tanti meritevoli libri per ragazzi che l’autore ha pubblicato in precedenza e di cui qua si sente un’eco sottile e penetrante - ha un’ambientazione di guerra. Non più i toni classici, patriottici e vagamente romantici di Non tutti i bastardi sono di Vienna all’epilogo della Grande Guerra, ma piuttosto le atmosfere vibranti, drammatiche, violente dei giorni prima e dopo la Liberazione e la fine della Seconda guerra mondiale. Alla scrittura ardita e di nobile consistenza del primo romanzo, qui segue una scrittura evocativa e ingenua, affidata al racconto in prima persona di Pietro che, per descrivere la paura e la morte, usa il linguaggio diretto e incontaminato dei bambini, lo sguardo disarmante e sincero dei suoi occhi innocenti. La rocambolesca fuga dettata da una sorte ingrata porta Pietro e lo sparuto gruppo di ‘buoni’ che sono con lui a confrontarsi con i ‘cattivi’ in divisa che parlano una lingua ‘da porcospino’ e che sono gli uomini di A-H. Nel linguaggio dell’infanzia solo in apparenza sembra che il dolore si annulli; è vero il contrario, il linguaggio dei bambini non conosce compromessi e se usa immagini confortanti (il lupo del titolo, per esempio) è solo per protezione, rendendo ancora più manifesti l’odio e la paura che sconvolgono la vita degli uomini. Alla voce di Pietro si alternano le pagine del diario di suor Elvira, che Pietro ben presto capisce non essere una vera suora, perché anche se ha solo dieci anni sa bene che una suora non porta lunghi capelli rosso fuoco sotto il velo e non può essere così bella. Elvira scrive con ben altro linguaggio, scrive con disperazione, con inquietudine, con la paura che quel segreto da cui scappa possa riemergere e con l’ansia che l’amore che prova per quel tedesco disertore, misterioso e sensibile, possa perderla definitivamente. Pietro ed Elvira, i bambini e le donne, le vittime predestinate della guerra e della violenza, le sole voci, però, che sanno levarsi contro, che sanno dire, con la speranza del ciclo della vita, “per fortuna ci sono i bambini”. Antonio Strepparola
La primavera del lupo presenta alcune analogie con il precedente Non tutti i bastardi sono di Vienna (si svolge durante una guerra, non la prima guerra mondiale, bensì la seconda, e anche qui cè unoccupazione, non quella dellimpero austriaco, ma quella senzaltro più dura e crudele del terzo Reich). Queste le analogie, poi, per il resto, è completamente diverso perfino come impostazione e struttura.
La vicenda di un piccolo gruppo in fuga dai nazisti (si tratta di due bimbi, di cui uno ebreo, di due anziane sorelle, pure esse ebree, di una finta suora, a cui poi si aggregherà in circostanze drammatiche un enigmatico disertore tedesco) potrebbe fare pensare al classico romanzo dazione, ma non è così.
Infatti lio narrante, di volta in volta, è Pietro, un bambino di dieci anni, ed Elvira, la finta suora, unalternanza che, oltre a non stancare, dato linevitabile diverso modo di esprimersi, presenta i punti vista dellinfante e delladulto che non sono mai coincidenti.
Il primo riesce istintivamente a vedere ciò che più si avvicina alla realtà, il secondo, ormai prigioniero della sua stessa logica, ha un approccio ben diverso, frutto di più di un ragionamento che lo porta ad avere una visione personale.
Ma la forza straordinaria di questo romanzo sta nel linguaggio del bambino, nelle sue osservazioni che, ad differenza delladulto, non sono frutto di laboriose riflessioni, ma che risultano istintive, perfino nei suoi giudizi dei grandi. E ammirevole e anche stupefacente la capacità di Molesini di esprimersi come se avesse una decina danni, nel coniare frasi sgrammaticate, ma di grande valore.
E del tutto naturale, quindi, che Pietro desti una grande simpatia, superiore a quella degli altri suoi compagni di fuga, ma il gruppo va assottigliandosi nel lungo itinerario che li porta da Venezia a risalire la valle dellAdige per rifugiarsi in una laterale della Val di Sole, un luogo adatto a ospitare dei fuggiaschi e dei disertori e in cui cè una baita di proprietà di Elvira. Sempre sotto loscura presenza di una lussuosa Mercedes che li segue e su cui si nota la presenza di un misterioso albino, unombra malefica che aggiunge terrore alla paura, giungeranno poi alla meta, e mi fermo qui, per non svelare il bellissimo finale che impreziosisce ancora di più un romanzo veramente bello e più che mai avvincente. Scoppiettante, con frequenti colpi di scena, con un ritmo sostenuto e diverso a seconda dellio narrante, per dirla con lautore se Non tutti i bastardi sono di Vienna è paragonabile a unopera di musica classica, La primavera del lupo è invece vero e proprio jazz, ma mai stridente e perfettamente raccordato in un equilibrio armonico di rara efficacia.
Credo che non sia necessario aggiungere altro, perché quando unopera parla da sé, con le sue qualità, con il suo linguaggio semplice, ma non elementare, è solo opportuno evidenziare, non occorrono spiegazioni, perché queste avvengono spontaneamente in chi legge, tanto che scoprire pagina dopo pagina quanto sia avvincente e appagante finisce con il diventare lelemento determinante.
La primavera del lupo
neri_ilaria - 15/05/2013 11:38
5/
5
Libro veramente stupendo...acquistato il giorno stesso in cui è uscito non mi ha deluso.
Ho avuto modo di conoscere Molesini con "Non tutti i bastardi sono di Vienna" che reputo straordinario ma devo dire che qui la scelta di avere come voce narrante un bambino ti fa senitre ogni aspetto della realtà in modo puro mentre leggi...sia il bello che l'orribile visto con gli occhi di un bambino, sentito con le sue orecchie...dà un messaggio fortissimo!
A. Neri
Renzo Montagnoli - 09/06/2013 09:38
neri_ilaria - 15/05/2013 11:38