Un giovane scrittore che ha già pubblicato qualche libro con discreto successo viene coinvolto da una serie di telefonate perentorie e dalla propria arrendevolezza in una singolare avventura: dovrà scrivere la sceneggiatura di un film, "La violetta del Prater", che è la tipica commedia sentimentale molto in voga negli anni trenta: nella Vienna del primo Novecento Toni, la spensierata fioraia del Prater, incontra un bellissimo giovane vestito da studente, che in realtà è il principe ereditario di Borodania in incognito... Fin qui, tutto normale, o quasi. Meno normale il personaggio del regista incaricato di dirigere il film: Friedrich Bergmann, un ebreo viennese dalla testa riccia di un imperatore romano, e dai neri occhi asiatici, estroverso a un poco gigione, che ha dovuto lasciare la famiglia in Austria. Siamo a Londra, nei mesi di quel 1933 in cui il nazismo celebra con cupa teatralità il processo per l'incendio del Reichstag; e Bergmann, al tavolo di uno squallido ristorante con il giovane amico, si abbandona a profezie catastrofiche: "vede" la guerra, i massacri, i bombardamenti, i roghi dei libri, il culto del Fuhrer. Davanti alla tempesta che addensa le sue nuvole, che senso ha lavorare a un'operetta scacciapensieri? Bergmann ha pronta una sua risposta: in fondo il dilemma del principe di Borodania è lo stesso di tanti scrittori o artisti che si vogliono rivoluzionari ma non saprebbero mai rinunciare alle comodità borghesi in cui sono nati e cresciuti. La storia elementare del film e le peripezie della lavorazione fanno da contrappunto a un dialogo tutt'altro che frivolo sul rapporto tra arte e vita. La grande strage viene preparata con la stessa competenza tecnica con cui si gira un film, ma nessuno ci vuol credere. "La violetta del Prater" (1946), uno dei libri che hanno consacrato la fama di Isherwood, ritorna ora con una prefazione di Giorgio Manganelli, stesa appositamente per questa nuova edizione: "Come Wodehouse, Isherwood è un intenditore [...]