Quando Giorgio Pasquali, certamente uno dei massimi autori della cultura italiana del Novecento, pubblica Le Lettere di Platone, ha appena compiuto 43 anni ed è quindi nella sua piena maturità. Il libro va letto insieme a Storia della tradizione e critica del testo, pubblicato quattro anni prima, e a Preistoria della poesia romana (1936) ed è, come questi, un libro unitario e non una raccolta di articoli. Ed è in questo libro, più che negli altri due, che è dato misurare la ricchezza e la varietà degli interessi di un filologo, che, nei quattro volumi delle Pagine stravaganti, ci ha lasciato alcuni fra gli esempi supremi della prosa letteraria del Novecento. A differenza che nei primi due, nel libro su Platone il referente primo non è, infatti, la filologia, ma il pensiero nella sua inaggirabile relazione alla storia e alla politica. Così, nella sezione certamente più importante, quella dedicata alla Settima lettera, Pasquali scrive sono le sue parole «un capitolo nuovo di storia siciliana» e, insieme, per dipanare i fili di cui è intessuta la lettera, un breve ma prezioso trattato sulla politica greca nel iv secolo a.C. E forse nulla testimonia dell'orgoglio e, insieme, dell'umiltà così caratteristici della sua mente, come le parole che concludono la prefazione: «Allontanarmi da Platone m'è grave, perché so di non aver mai avuto contatto con uno spirito più alto». g.a. Le Lettere di Platone tornarono alla ribalta dell'indagine platonica e della filologia classica in genere. Io le lessi e rilessi, appassionandomi per l'uomo Platone e per la speculazione ultima del filosofo Platone; e nel 1931-32 osai fare di esse argomento delle esercitazioni di seminario, che tenni con i miei scolari di Firenze e di Pisa. E frutto delle esercitazioni è il presente libro. «Il nome di Giorgio Pasquali è nome insigne nell'ambito della cultura italiana ed europea. L'erudizione profonda, la familiarità della dottrina filologica europea, straniera e italiana, si accompagnano in lui a un desiderio di analisi "puntuale" sempre desiderosa di luce: non di gloria, di luce». Carlo Emilio Gadda