Come può la vita essere concepita nella sua duplice dimensione del vivente e del vissuto, della materia e dell'esperienza? A questa domanda, la filosofia e, più recentemente, le scienze sociali, hanno portato ogni tipo di risposta, spesso favorendo l'una o l'altra di queste dimensioni: quella biologica o quella biografica. Tuttavia, è possibile pensarli insieme e riconciliare gli approcci naturalistici e umanistici? La scommessa di Didier Fassin è uscire dall'astrazione dei concetti filosofici per tentarne una verifica empirica e rivelare quindi qualcosa di concreto, capace di interrogare la sociologia e la politica. Fassin unisce critica filosofica e ricerca etnografica sul terreno e mostra che negli ultimi decenni la vita biologica ha preso un assoluto sopravvento gerarchico su quella biografica. Se oggi si concede facilmente un permesso di soggiorno per ragioni sanitarie mentre è molto più difficile ottenere un diritto d'asilo, è perché della vita si sacralizza la sua dimensione impolitica. Ma non tutte le vite si equivalgono (neri d'America, stranieri e migranti, richiedenti asilo), e lo dimostra empiricamente la differenziazione liberista del valore, cioè del prezzo, che emerge ad esempio nel rimborso delle vittime di omicidi, incidenti eccetera. Una volta assemblati, come in un puzzle, i pezzi di questa composizione antropologica, appare dunque un'immagine: quella inquietante delle vite ineguali.