Vittorio Foa rende pubbliche dopo sessant'anni le lettere spedite dal carcere ai genitori, unica scrittura che gli era consentita, dal 1935 al 1943. Mentre tutto il mondo cambiava attraverso guerre, stermini e odi razziali, Foa affermava con le sue lettere, settimana dopo settimana, la volontà di dare comunque un senso alla propria vita e di costruire un futuro. E il carcere consentiva al giovanissimo cospiratore torinese di "Giustizia e Libertà" di approfondire la propria formazione, soprattutto attraverso lo studio con uomini come Riccardo Bauer e Ernesto Rossi. Fu un esercizio della mente come scelta radicale e assoluta: più stretta era la costrizione, più determinata la voglia di provare nuovi percorsi. Nelle lettere del 1938-39 i commenti sulla campagna razziale italiana sono una singolare eccezione al silenzio imposto agli ebrei di quel tempo. Paradossalmente la sola libertà di giudizio venne dal fondo di un carcere. Nell'insieme queste lettere costituiscono un sorpredente documento, ricco di spunti sempre sorretti da un linguaggio privo di retorica: la loro lettura viene a riempire di nuove ragioni il delicato passaggio dell'Italia dal fascismo alla democrazia. Molte delle lettere di Foa subirono l'operato della censura. Alcuni passi resi illeggibli dall'inchiostro coprente sono stati per la prima letti in occasione di questa edizione grazie ad apparecchi in dotazione alla Polizia scientifica. Un atto certamente simbolico di necessaria riparazione.