La vita di un insegnante è complicata. Quella di un supplente è complicata al quadrato. Se poi il primo giorno di scuola parte con l'auto in riserva, semafori rossi a raffica e la segretaria didattica che si è dimenticata il contratto da firmare, bè, non è proprio il massimo. Ma Marco ha trent'anni passati e non può permettersi di fare lo schizzinoso, insegnare (italiano) è quello per cui ha studiato, è il suo obiettivo, la sua vocazione, non si può far certo smontare da quisquilie del genere e neanche dallo stipendio miserrimo, dalla collaboratrice scolastica che lo odia o dalla dirigente dell'istituto che lo guarda come se fosse un appestato. Marco per un anno sarà l'insegnante di una quinta liceo e questa è l'unica cosa che conta. Filippo Caccamo, partendo dalla sua esperienza come insegnante, in "Maledetta prima ora" racconta con ironia, sensibilità e leggerezza quel mondo contraddittorio e meraviglioso, caotico e prezioso, frustrante e fondamentale che è la scuola. Perché in una società in cui tutto deve essere straordinario, bellissimo, eccezionale, in cui si devono fare per forza lavori pagatissimi, in uffici grandissimi, dove si guadagna tantissimo, in cui tutto ciò che non è "issimo" è sfigato, scegliere di fare l'insegnante è un atto di coraggio. Non è profittevole, non crea guadagno immediato, non ha grafici di rendimento a fine anno. Questo mestiere è il punto più alto dell'inutilità, e quindi la cosa più utile che ci sia, perché non prevede prodotti da vendere, ma persone da formare. Anche se magari quelle persone si manifestano sotto la forma terrificante di adolescenti indolenti in piena tempesta ormonale che parlano una lingua incomprensibile a chiunque abbia più di venticinque anni. Ma nessun mestiere è perfetto, no?