Mikel Marini porta nella poesia di questi anni un ecosistema inaspettato: giardino, deserto, alveare in cui ogni cella racchiude un universo quasi perfetto e al suo interno un'avventura fatale. Marini è lucido e ossessionato, in uno spazio eremitico dissacrato mette in scena una giostra di santi reali e immaginari, re antichi e cavalieri picareschi, umanisti dimenticati; una collezione di punizioni autoinflitte nei modi più bizzarri, in un gioco di paratesti e alterego. Non per il mondo ma per il giardino è un labirinto di epoche e figure imprevedibili, sposta continuamente il confine tra letteratura e immaginazione, con la provocazione della farsa affonda in una prodigiosa originalità di pensiero. È un libro attraversato dalla violenza della mistica, in cui il mostruoso è meraviglioso e la penitenza è trasformazione. Marini ha una cultura trilingue e tutte le qualità che occorrono alla poesia: un lessico, una propria metrica, una capacità di costruzione del congegno letterario, una visione e un immaginario profondi e non comuni. La complessità e il talento rendono questo esordio sorprendente: una creatura mutante e alata, perturbante se guardata da vicino, eppure densa di bene.