Da sempre l'architettura si fonda su una complessa interazione tra la mente e gli aspetti legati alla sfera dei sensi. Da questo punto di vista, un contributo fondamentale lo ha fornito la mano, mediatrice dell'idea attraverso il disegno, e capace in taluni casi di darle direttamente forma mediante un'azione mimetica. In ciò l'architettura rivela di non essere affatto riducibile a mera astrazione, ma di avere a che fare con il corpo. In un'epoca come l'attuale, che tende a sottoporre ogni processo produttivo a una drastica razionalizzazione, non è facile mantenere vivo questo accordo. E non soltanto perché oggi la progettazione è inevitabilmente regolata da programmi di disegno automatizzato. Sempre piú spesso nelle società dominate da un capitalismo finanziario smaterializzato l'architettura si limita a soddisfare le esigenze del mercato, al piú considerata come la nobile ereditiera di un illustre passato. Ciò impone all'architetto di rispondere a un duplice appello. Se da un lato deve prendere coscienza del ruolo di intellettuale e non di semplice tecnico, dall'altro deve difendere un modo di pensare e organizzare lo spazio e la materia che ne custodisca il rapporto con quella prima radice a cui sono sempre stati connessi: il tempo. Un'architettura che davvero riesca a farsi forma concreta di queste problematiche può proporsi come rimedio per le società odierne, ammalate della carenza di un agire e sentire collettivo. È in tale prospettiva che la pratica dell'architetto dovrebbe guardare al di là dei modelli di operatività puramente esecutiva, riattingendo a una filosofia della prassi, dove il pensare e l'agire sono inestricabilmente connessi.