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Già per Ragazzi di vita la critica aveva parlato di un superamento nel neorealismo, dovuto a una specie di conflagrazione linguistica, per cui ogni sentimentalismo e documentarismo residui nel neorealismo erano andati in pezzi. Ora, con questo romanzo, - che è il secondo di una ideale trilogia, di cui l'autore ha già cominciato il terzo "Il Rio della Grana" - il processo in atto va avanti. L'ambiate, con il suo brulicare di episodi e di figure, non è più l'oggetto diretto del racconto, ma è in funzione di un unico personaggio centrale, la cui storia, pur nella sua violenza e nella sua conduzione, è una vera storia: con quanto di epico, ma anche con quanto di razionale questo significa. Dato l'ambiente in cui vive - il livello culturale sottoproletario dela malavita romana - il giovane protagonista non potrà mai giungere a una vera coscienza. Dal tugurio all'appartamento all'INA Case, dalle strade di Roma a Regina Coeli, dall'esperienza missina a quella comunista, le contraddizioni attraverso a cui egli passa non possono che restare puramente esistenziali se viste dall'interno. Ma se giudicate oggettivamente, nel nostro momento storico, il loro processo risulterà, nello steso tempo, dialettico. In qualche modo, infatti, egli, alla fine, sarà andato al di là del suo ambiente, avrò superato il mondo della sua fangosa borgata, covo di ogni miseria, vizio e violenza. Quanto allo stile, il romanzo appare ancora più libero e complesso, rispetto a Ragazzi di vita: anziché restringersi e semplificarsi dentro i limiti di una storia particolare e tipica, sembra non avere più limiti, nell'attimo di impadronirsi mimeticamente dell'enorme sottomondo romano.