La poesia di Francesco D'Angiò si presenta dapprima chiusa con un catenaccio, restia ad aprirsi, e declinata come se provenisse da una lingua che ha attraversato una serie di inverni di scontento, mossa da una sfiducia che traccia un'ampia curva prima di atterrare: - sono pratico di privazioni / come il peso di un aquilone / senza vento -. Si delinea lungo un orizzonte che non induce a nessuna forma di rallegramento, esclude la possibilità d'ogni traccia: - perché ci tocca non lasciare / alcun segno / di questo passaggio -. Un pessimismo radicato nello sguardo, consapevole della fugacità e della precarietà dell'esistenza, e se nei versi Zanzotto si interrogava: - che sarà della neve? che sarà di noi? -, l'autore non tergiversa e con decisa e ferma voce, in maniera perentoria (e con una rima involontaria) proclama: - tu sai cosa accade alla neve / prima o poi -. In apparenza quindi nessuno spiraglio di speranza, ma un incedere tutto ripiegato su una sorta di nichilismo integrale, se arriva a escludere qualsiasi possibilità che non sia il male. Una poesia che nella sua asciutta compostezza non trascura le ragioni di una resa estetica convincente, persegue un'idea di pulizia e nitore.