L'arte dell'ultimo secolo è attraversata da una linea ininterrotta. Scarti, assemblaggi eterogenei, unità ottenute tramite molteplicità irriducibili. Joseph Cornell raduna nelle sue scatole oggetti che raccoglie per le strade di New York. Incontriamo il mondo in una teca, l'universo in una cripta. E scopriamo che la cripta è spalancata, il chiuso è la massima intensità dell'aperto. Masashi Echigo crea imprecisi montaggi di pezzi di scooter. Nessuna plasticità in quei rottami di plastica. Plasmare è impossibile. Tutt'al più comporre, accogliere forme già date, convocare vite precedenti di oggetti estranei. Robin Meier lascia che uno sciame di lucciole prenda a pulsare all'unisono con una manciata di led sparsi nel buio di una foresta. Il naturale e l'artificiale scivolano l'uno nell'altro, condotti per mano dalle intermittenze di un software. Che una simile ipnosi informatica spieghi quella costante telepatia comunicativa in cui viviamo? Siamo noi, quelle luci e quelle lucciole?